Aducanumab blocca la patogenesi amiloide della malattia di Alzheimer
GIOVANNI ROSSI
NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 21 novembre 2020.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org
della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia).
Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società,
la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste
e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
La malattia di Alzheimer è la forma più grave e frequente di demenza
neurodegenerativa, che esordisce in età presenile e senile con sintomi quali perdita
di memoria, alterazioni cognitive e raramente manifestazioni psicotiche,
conseguenti alla perdita di popolazioni neuroniche corticali e ippocampali
implicate nei processi alla base della fisiologia dell’intelletto. La neurodegenerazione
procede inesorabilmente fino alla morte e, come quando Alois Alzheimer studiò
nel 1906 la sua prima paziente, Auguste Deter,
identificando nel cervello post-mortem le placche amiloidi (o placche neuritiche)
extracellulari e la degenerazione fibrillare intraneuronica (o tangles), ancora oggi non possiamo fare nulla per
arrestare la malattia.
Nella ricerca sull’eziopatogenesi molecolare della malattia di Alzheimer
o, come sostiene la nostra scuola neuroscientifica, dei differenti processi
patologici inclusi nella categoria comune della malattia di Alzheimer perché accomunati
da neurodegenerazione e decorso clinico, si segna il passo da tempo e la
speranza di giungere in tempi brevi all’identificazione di farmaci in grado di
arrestare o modificare in maniera apprezzabile i processi alla base dell’inesorabile
progressione della malattia è stata ormai abbandonata.
Oggi non si brancola più nel buio come vent’anni or sono e, da tempo, vi
sono precisi punti fermi nella patogenesi di varie forme. Si dispone di molti
dati sul rapporto fra genetica e biochimica nelle forme familiari, si conoscono
in dettaglio i processi che portano alla produzione in eccesso di peptidi β-amiloidi
(βA), le reazioni che portano alla formazione di oligomeri e altre forme
responsabili della precipitazione amiloide; sono noti i rapporti fra questi
processi all’origine delle placche neuritiche extracellulari individuate da
Alois Alzheimer e l’iperfosforilazione della proteina associata microtubuli tau,
che determina la formazione degli aggregati neurofibrillari intra-neuronici, costituenti
il secondo dei contrassegni patologici individuati per la diagnosi cerebrale post-mortem
dal celebre neurologo tedesco. Infine, sono note anche alcune ragioni che rendono
in molti casi indipendente la degenerazione neurofibrillare intraneuronica legata
alla tau dalla β-amiloide extracellulare. Tuttavia, non si comprendono le
ragioni per cui, nelle forme non-familiari che costituiscono la stragrande
maggioranza dei casi, il primum movens eziologico inneschi la catena di
eventi neurodegenerativi e perché l’arresto di processi che allo stato attuale
delle conoscenze ci appaiono come eventi patogenetici o fisiopatologici
cruciali, non riesce nella realtà clinica a fermare la malattia.
A questo quadro si è aggiunta una nuova acquisizione che, sebbene accresca
la frustrazione dei clinici, costituisce un’ulteriore stimolo per i
ricercatori: in passato ci si limitava a rilevare che l’esordio clinico della
malattia seguiva di molti anni lo sviluppo di deposizione del materiale
amiloide con le reazioni infiammatorie e immunogliali
che contribuiscono alla formazione delle placche; oggi sappiamo che l’inizio
della deposizione di βA nel cervello è un evento tardivo rispetto all’epoca
di inizio dell’aggregazione delle forme βA nel cervello delle persone che
svilupperanno la malattia. Dunque, se si eccettuano quelle forme che decorrono
con degenerazione neurofibrillare intraneuronica indipendente o esclusiva,
ossia senza le classiche placche amiloidi, l’obiettivo principale dovrebbe
essere individuare e neutralizzare i “semi βA” quando cominciano a
formarsi.
Questo obiettivo ha costituito il fine di un progetto di ricerca condotto
da numerosissimi ricercatori, coordinati da Mathias
Jucker con Ruth E. Uhlmann. Il gruppo di ricerca è
giunto a un risultato di sicuro interesse per il prosieguo degli studi.
(Uhlmann
R. E., et al. Acute targeting of pre-amyloid seeds in transgenic mice reduces
Alzheimer-like pathology later in life. Nature Neuroscience - Epub ahead of print doi: 10.1038/s41593-020-00737-w,
Nov, 2020).
La provenienza degli autori è la seguente: University
of Tübingen, Tübingen (Germania); Department of Biotherapeutic Discovery, H.
Lundbeck A/S, Copenhagen (Danimarca); Department of
Neurology and Yerkes National Primate Research Center, Emory University,
Atlanta, Georgia (USA).
Anche se finora senza approdare alla
possibilità terapeutica di modificare il decorso progressivo della malattia,
sono stati compiuti progressi nella conoscenza della patologia molecolare della
neurodegenerazione alzheimeriana, che hanno contribuito a rendere più precoce e
precisa la diagnosi, per la quale un tempo si aveva la certezza solo mediante
il rilievo istologico in campioni cerebrali post-mortem di placche
amiloidi e degenerazione fibrillare intraneuronica. Oggi è noto che le forme
familiari della malattia sono associate a mutazioni selettive in particolari geni
(es.: APP, PS1, PS2), ereditate come un carattere mendeliano autosomico
dominante, mentre varianti in numerosi altri geni possono costituire concause,
alle quali si dà il nome epidemiologico di “fattori di rischio” per lo sviluppo
delle forme non familiari che costituiscono la maggioranza.
Per la patologia della proteina tau
si veda in Note e Notizie 15-02-14 Tau induce degenerazione mediante perdita
di eterocromatina e, per i rapporti col meccanismo prionico,
Note e Notizie 31-05-14 Prioni tau specifici si propagano e causano taupatie
– al termine di questo articolo è riportato, per approfondire l’argomento,
un elenco di 13 nostri articoli.
Per introdurre il lettore non
specialista alla patologia amiloide alzheimeriana riprendiamo i cenni proposti in
un articolo dello scorso anno (Note e Notizie 13-04-19 La terapia senolitica agisce su un nuovo meccanismo della malattia di
Alzheimer), che si suggerisce di leggere per comprendere il ruolo dell’invecchiamento
delle cellule progenitrici degli oligodendrociti (OPC) indotto dalla β-amiloide. Si ricorda che, anche solo limitandosi agli studi sulla genesi delle placche amiloidi, la
mole del lavoro svolto è impressionante; la nostra società scientifica ha
seguito gli sviluppi di questa ricerca, riuscendo a presentare attraverso
recensioni pubblicate su questo sito solo una parte degli studi più significativi.
Quale esempio, si propone qui di seguito un estratto di un articolo del 2015.
“La
APP (amyloid precursor protein), una proteina
transmembrana tipo I codificata da un gene del cromosoma 21 ed esistente in
varie isoforme, è abbondante nel sistema nervoso e concentrata nei neuroni
centrali, dove per trasporto anterogrado lungo gli assoni raggiunge i terminali
sinaptici. Da alcuni decenni, per la sua centralità nella patologia molecolare
della malattia di Alzheimer, è un oggetto di studio privilegiato in ricerche
che vanno dall’ambito genetico, che ha identificato mutazioni di APP
all’origine di forme familiari della demenza neurodegenerativa, a quello
biochimico e biologico molecolare, che hanno identificato possibili meccanismi
nella patogenesi del danno.
Le
placche amiloidi, che insieme con la degenerazione neurofibrillare[1] intracellulare costituiscono il
contrassegno morfologico della malattia descritto dallo stesso Alois Alzheimer,
si formano per deposizione di peptidi β-amiloidi e sono costituite, oltre
che dal materiale amiloide, da neuriti dilatati e frammentati, da detriti
neuronici, da microglia ed altre cellule gliali e infiammatorie. A lungo, due
teorie eziopatogenetiche si sono contrapposte: la prima considerava quale primum movens l’accumulo extracellulare
di amiloide derivata dai peptidi amiloidogenici
(Selkoe), la seconda ipotizzava un inizio endocellulare a partire da
alterazioni della proteina tau (Tanzi). Il procedere degli studi ha poi fornito
la dimostrazione sperimentale della possibilità di induzione della
degenerazione neurofibrillare intraneuronica da parte di peptidi β-amiloidi.
Attualmente
esiste una discreta conoscenza, come vedremo in sintesi più avanti[2], delle tappe biochimiche
necessarie alla formazione dei peptidi amiloidogenici
e una notevole mole di dati sui probabili meccanismi tossici. Ormai è una
nozione consolidata che il taglio molecolare operato sull’APP da
β-secretasi e γ-secretasi genera peptidi Aβ1-40, 42 e 11-40, 42,
i quali si accumulano prevalentemente negli spazi extracellulari del neuropilo
della neocorteccia e dell’ippocampo. Ogni riflessione sulla patogenesi
molecolare dei sintomi cognitivi si è basata su questo principale riferimento,
soprattutto per le fasi precedenti la massiccia perdita apoptotica
e necrotica di neuroni proencefalici.
Un
nutrito team di ricercatori ha
studiato un nuovo frammento dell’APP, dimostrandone anche la potenzialità
psicotossica. Il 7 novembre 2015 ne abbiamo dato notizia nelle “Notule” con
queste parole: “Willem e numerosi colleghi, provenienti da 14 diversi istituti
scientifici, in uno studio pubblicato su Nature
dichiarano di aver identificato i frammenti CTF-η dai quali derivano i
peptidi Aη, e riportano di aver verificato la
capacità dei prodotti di scissione dell’APP secondo la via della η-secretasi di inibire l’attività
neuronica dell’ippocampo.”[3]. Prima di esporre in breve i
contenuti di questo studio, si ricorda che il 27 di ottobre 2015, in
un’anteprima elettronica precedente la pubblicazione a stampa, due ricercatori,
l’uno proveniente dall’Università Nazionale di Singapore, l’altro
dall’Università della California a San Diego, Tyan e Koo,
hanno annunciato la scoperta del nuovo frammento, affermando che “una scissione
mai descritta in precedenza dell’APP (amyloid
precursor protein) da parte della η-secretasi, seguita
dall’intervento di α- o β-secretasi, rilascia un nuovo frammento
proteolitico, battezzato Aη,
in grado di causare danno sinaptico”[4].
In ogni caso,
anche se la via biochimica che porta alla formazione di Aη non si rivelerà in grado
di gettare luce sui meccanismi di molti disturbi, come suggerito da Tyan e Koo, e anche se questo nuovo frammento peptidico non
modificasse sostanzialmente il quadro della patologia molecolare della malattia
di Alzheimer, la sua esistenza e la potenzialità neurotossica non potranno
essere ignorate dalla ricerca”[5].
L’esempio del frammento proteolitico
Aη ci sembra emblematico delle nuove acquisizioni che accrescono le
conoscenze, ma non forniscono elementi decisivi per l’individuazione di terapie
modificanti il decorso della malattia.
Nei
neuroni, l’APP per trasporto anterogrado rapido lungo l’assone giunge ai
terminali dove, in compartimenti endocitici, subisce
l’intervento di β-secretasi e γ-secretasi che liberano peptidi
Aβ monomerici nello spazio extracellulare. Una parte dei peptidi Aβ
sembra derivare da processi post-sinaptici. Multimeri
di Aβ si assemblano formando configurazioni β-sheet, protofilamenti
e fibrille amiloidi. Continua il dibattito sulle specie di Aβ e sugli
stati di conformazione che esprimano maggiore nocività. In passato, placche,
fibrille e protofibrille erano considerate dalla maggior
parte dei ricercatori le principali responsabili dei meccanismi di danno, ma
numerose prove hanno dimostrato che i multimeri, da
alcuni denominati ligandi diffusibili Aβ-derivati (Aβ-derived diffusible
ligands, ADDLs), sono
le principali entità tossiche[6].
Poiché
l’APP e le secretasi amiloidogeniche sono presenti
nei neuroni e trasportate alle sinapsi, si ritiene che l’APP neuronica sia la
maggior fonte di precursore che dà origine alle specie Aβ in prossimità
dei terminali, dove BACE1 (β-site
APP cleaving enzyme 1)
scinde in compartimenti endocitici APP formando
derivati C-terminali amiloidogenici, che sono poi
scissi dalla γ-secretasi con la produzione dei peptidi Aβ 40, 42 e
43.
A
proposito di BACE1, noto anche come β-secretasi
1, beta-site APP clearing enzyme, ASP2 ed altri
nomi, è un’aspartil-proteasi
codificata nella nostra specie dal gene BACE1 ed importante nei neuroni del
sistema nervoso periferico per la formazione della guaina mielinica dei neuriti
che entrano nella compagine dei nervi. Le proteasi BACE, e particolarmente
BACE1, sembrano avere importanza nella funzione dei fusi muscolari, per questo
si teme che gli inibitori di questa molecola in sperimentazione, che appaiono
innocui nei roditori, possano generare sintomi da alterata coordinazione
motoria.
I peptidi Aβ,
normalmente rilasciati al livello dei terminali, possono influenzare l’attività
sinaptica.
Un'altra pista seguita da numerosi
ricercatori è quella del danno mitocondriale. L’accumulo dei mitocondri
danneggiati è un contrassegno del processo di invecchiamento e della
neurodegenerazione che si sviluppa nella malattia di Alzheimer. Un numero
considerevole di progetti di ricerca indaga i meccanismi molecolari dell’alterazione
dell’omeostasi mitocondriale. Evandro F. Fang e
colleghi hanno studiato la mitofagia, dimostrando che
è alterata nei neuroni dell’ippocampo di pazienti affetti da malattia di
Alzheimer, in cellule staminali pluripotenti indotte derivate da persone
affette, e in modelli sperimentali della demenza neurodegenerativa. Secondo
questi ricercatori, la mancata rimozione dei mitocondri alterati è un evento
trainante la patogenesi della malattia di Alzheimer e la mitofagia
potrebbe avere effetto terapeutico[7].
Non si contano i lavori condotti
nell’ambito del ruolo dello stress
ossidativo: sull’inibizione di questi meccanismi si baserebbe l’effetto dei
raggi X[8].
Ritorniamo allo studio condotto da Mathias Jucker con Ruth E. Uhlmann
e numerosi colleghi che ha identificato un anticorpo monoclonale in grado di
ridurre la formazione e il deposito di aggregati di peptidi β-amiloidi.
La
formazione di veri e propri depositi di sostanza β-amiloide a partire dai peptidi amiloidogenici
(β-A42-43 aa.) e dalla loro aggregazione è un evento relativamente tardivo
nella patogenesi della malattia di Alzheimer, ma non si conosce esattamente
quando i semi patogeni di βA comincino a formarsi, quando si avvia la loro
diffusione e, soprattutto, quale sia la loro caratterizzazione biochimica.
Mathias Jucker, Ruth E. Uhlmann e colleghi hanno
sottoposto a verifica sperimentale, nel modello animale della malattia di
Alzheimer costituito da topi transgenici per la AβPP (Amyloid-β
Precursor Protein), numerosi anticorpi per
giudicarne la capacità di neutralizzare i semi βA prima che diventi
rilevabile la deposizione del materiale amiloide.
I ricercatori hanno anche
caratterizzato i diversi profili di riconoscimento degli anticorpi, impiegando
l’immunoprecipitazione di assemblati di peptidi βA frazionati per
dimensione, nativi, di topo e derivati da cervello umano. Elettivamente un
anticorpo, l’aducanumab, dopo somministrazione acuta in uno stadio
pre-amiloide ha portato a una significativa riduzione dei depositi βA e
delle manifestazioni patologiche a valle, a sei mesi di distanza dal
trattamento sperimentale.
I risultati di questo studio, per il
cui dettaglio si rimanda alla lettura integrale del testo dell’articolo
originale, dimostrano che semi patogenetici della β-amiloide intercettabili
con anticorpi neutralizzanti esistono già durante la fase di latenza dell’aggregazione
peptidica nel cervello che andrà incontro alla neurodegenerazione responsabile
della demenza ad esito fatale. Su questa base si può dedurre che la fase
preclinica della malattia di Alzheimer, correntemente definita deposizione di βA
senza sintomi clinici, può essere una manifestazione relativamente tardiva di
una precocissima formazione e diffusione di semi patogenetici, che attualmente
sfugge ad ogni possibile accertamento strumentale o di laboratorio in vivo.
L’autore della
nota ringrazia
la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla
lettura delle recensioni di
argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare
il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovanni
Rossi
BM&L-21 novembre 2020
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Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze,
Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come
organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] Le neurofibrillary tangles, ossia
grovigli fibrillari che si formano per degenerazione delle strutture portanti
dell’assone, sono composte da aggregati di filamenti appaiati ad elica derivati
da agglomerati in beta-configurazione della proteina tau.
[2] Si veda in Note e Notizie 14-11-15 Un probabile nuovo meccanismo nella malattia di
Alzheimer.
[3]
V. Inibizione di neuroni dell’ippocampo
da parte del frammento Aη dell’APP scoperto di
recente (Note e Notizie 07-11-15 Notule).
[4]
V. Scoperto un nuovo frammento di
APP con un probabile ruolo nella malattia di Alzheimer (Note e Notizie 07-11-15
Notule). Cfr. Tyan S. H. et al., Cell Res. – Epub ahead of print
10.1038/cr.2015.125, Oct. 27, 2015.
[5] Note e Notizie 14-11-15 Un probabile nuovo meccanismo nella malattia di
Alzheimer.
[6]
Caughey B., et
al. Annual Review of Neuroscience 2, 271-276,
2003; Gong Y., et al. PNAS
USA 100, 10417-10422, 2003; Selkoe D. J., Science 298, 789-791, 2002.
[7] Note e Notizie 16-02-19 La mitofagia inibisce
amiloide e tau e cura il difetto cognitivo alzheimeriano.
[8] Note e Notizie 06-04-19 Perché i raggi X possono essere terapeutici
nella malattia di Alzheimer.